L’ultimo brevetto depositato da Huawei intende migliorare la sicurezza degli smartphone, nell’ultimo periodo squarciata da svariati attacchi cybercriminali. Non si tratta di un “freddo” componente hardware, ma di un procedimento software tanto efficace quanto rivoluzionario nei suoi effetti pratici.
Dietro ai brevetti si annida una certa teoria: spesso e volentieri vengono utilizzati dalle aziende soltanto per finalità propagandistiche, con l’obiettivo di dimostrare al pubblico l’attitudine a cimentarsi in cose nuove e ad essere tecnologicamente all’avanguardia. Un mero esercizio di stile, insomma, come lo smartphone a forma di smart speaker sperimentato nell’ultimo periodo da Xiaomi, tanto ingegnoso quanto impraticabile. Eppure, come in tutte le cose non mancano delle eccezioni. Huawei, ad esempio, sembra aver utilizzato il brevetto per qualcosa di veramente utile. Non si tratta stavolta di un “freddo” pezzo d’hardware, ma di una idea software destinata a potenziare la sicurezza dei nostri dati personali.
Vale la pena drizzare l’attenzione perché in effetti ci imbattiamo in un tema alquanto inflazionato dalla moltitudine di attacchi e stratagemmi approntati dai cybercriminali. L’intento del gigante di Shenzhen è tanto semplice quanto straordinario e rivoluzionario sotto il versante squisitamente pratico: un sistema di rilevamento delle applicazioni contraffatte, peraltro protetto da impronta digitale, ormai incorporata anche negli smartphone a bassissimo costo. Il funzionamento si snoda attraverso molteplici passaggi ed è sorretto da un server aziendale, che potremmo immaginare come una centralina dalla quale si dipana l’intera procedura di controllo.
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Il sistema si avvia nell’esatto momento in cui installiamo un’app sul nostro smartphone ed esaurisce la propria funzione prima ancora che avviamo il programma scaricato. La finalità, in buona sostanza, è di tipo preventiva e non curativa, perché spesso e volentieri è proprio dall’esecuzione delle app che trovano sfogo i vari malware scoperti sul web. Il server aziendale ha il compito di controllare l’autenticità dell’applicazione, scandagliando il programma in ogni sua parte e confrontando che i certificati relativi allo sviluppo delle app non siano contraffatti; probabilmente, il meccanismo è sorretto da una sorta di esame incrociato, avendo cura di raffrontare l’esatta corrispondenza tra il certificato presente nell’applicazione installata sullo smartphone e quello invece messo a disposizione dentro al server aziendale.
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Siamo in presenza di una funzione certamente utile e chissà che non possa essere in futuro incorporata dentro al sistema operativo HarmonyOS di Huawei, magari per dimostrare la sua affidabilità e la sua forte vocazione per la sicurezza. Certo è che il procedimento necessita di passaggi impegnativi, forse poco rivoluzionari sotto il profilo tecnologico ma senz’altro difficoltosi da attuare: visto che il server aziendale funge da “cervello” di autenticità delle app, appare scontato la necessità di approntare delle specifiche collaborazioni e accordi tra il sodalizio cinese e le aziende sviluppatrici delle applicazioni. Non aspettiamoci, insomma, novità nell’immediato. Ma di fronte a brevetti raffazzonati aventi ad oggetto smartphone troppo innovativi a tal punto da essere improbabili, quella di Huawei è quantomeno una idea rivoluzionaria più sotto il fronte dei benefici pratici che su quelli di profilo tecnologico.
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